Il giradischi azzurro

DI FRANCO GUIDI

Mia mamma si sedeva sulla sdraio al contrario, per abbronzarsi la schiena. Stava dritta con le gambe incastrate nella struttura di legno e lavorava a maglia, con i ferri lunghi o all’uncinetto. Io e Paolo, mio fratello, ci avvicinavamo ogni tanto per sapere se era ora di fare il bagno, per dirle dove andavamo o per chiederle le chiavi della cabina. Il papà arrivava solo nel weekend.

Scendevamo la salita romana, con quella bella scansione lunga che ti fa correre in discesa, col doppio passo dal ritmo inebriante e il rischio dell’infradito che rimane indietro e ti fa atterrare col piede nudo sulla pietra dura, i sassolini che ti penetrano la pelle.

Scendevamo alla sera del venerdì e non andavamo alla stazione. Ci fermavamo alla fine della scalinata, là dove incrocia l’Aurelia creando un dosso, e cambia inclinazione. Lì c’era un muretto alto dove ci appoggiavamo e a volte ci arrampicavamo per sederci. Mi ricordo serate dolci, con la mamma contenta di averci lì con lei, in attesa del papà che arrivava con il treno da Milano, insieme a tanti altri papà. Lo vedevamo da lontano e il suo arrivo lento, in leggera salita, con il sorriso sornione sotto i baffi, ci faceva godere ancora di più il momento degli abbracci che sarebbero arrivati.

Noi stavamo in affitto in un appartamento in alto sulla salita. Un appartamento semplice, con un piccolo cortile. Piccolo, ma non abbastanza da impedirci partite di calcio uno contro uno, favoriti dal fatto che la palla non poteva uscire. Il cortile era fondamentale per rientrare in casa, quando dimenticavamo la porta che si richiudeva dietro di noi e nella tradizione ligure non aveva la maniglia per riaprirla. Così uno di noi due doveva scavalcare, “come un scimbiot” avrebbe detto la nonna in milanese, e riaprire la porta da dentro.

La giornata al mare era scandita. Noi due fratelli subito al mare dopo colazione, la mamma a far la spesa, ma soprattutto a comperare la focaccia e i giornali. Trovarla, la focaccia, non era semplice nemmeno negli anni sessanta. Una volta arrivata la mamma in spiaggia, rassicurati che la focaccia c’era e che erano passate le fatidiche ore per non morire di congestione, potevamo finalmente fare il bagno. Pranzo rigorosamente a casa e poi riposino: la mamma dormiva e noi dovevamo stare fermi e zitti il più possibile. Pomeriggio bagno e merenda. A fine giornata la mamma risaliva a casa per preparare la cena e noi eravamo impegnati con altri bambini in epiche partite di calcio sulla sabbia. La partita finiva con un bellissimo ultimo bagno alle 8 di sera e poi anche noi a casa.
Dopo cena, fuori di nuovo con i nostri amici.

Dopo la nostra casetta la salita proseguiva, fino molto più in alto, fino alla panoramica che segnava il confine del nostro regno. Oltre là non ci arrischiavamo da soli. Ci piaceva comunque salire e arrivare alle prime balze, con gli ulivi e lo spazio che lasciavano sotto, quelle fasce di terra dove era facile sdraiarsi, sedersi, sentire le prime confidenze, parlare delle ragazze della spiaggia o perfino parlare con loro. Uno spazio di libertà minuscolo e sconfinato dove il nostro giradischi azzurro divenne presto un oggetto di culto, con la nostra collezione di 45 giri. La prima festa danzante me la ricordo lì. E mi ricordo che dovemmo anche prestare dischi e giradischi a dei ragazzi più grandi, con grande rischio di perdita e il risultato di qualche disco graffiato.

C’era anche un luogo di avventura più urbano: lo scheletro di una costruzione abusiva i cui cementi armati salivano sopra le case e noi su, per le scale nude, senza nessuna protezione, penso adesso con paura. Andavamo a guardare il mare o più spesso a far passare la sera, chiacchierando per diventare grandi.

In quegli anni Gimondi vinceva il Tour de France, l’Italia veniva eliminata dalla Corea ai mondiali in Inghilterra e l’uomo arrivava sulla luna. La televisione era solo in un bar, quello che noi ci ricordiamo per il Pagiugo, un gelato gigantesco che il papà ci portava a mangiare il sabato sera.

Il mio mare era la libertà.