Non ho niente da fare

DI MIRIAM GOI

Il mio mare non è mio. E non è reale. O meglio, vive più nella memoria che nella realtà.

Mi ritrovo spesso al mare vestita, d’inverno. A camminare sulla sabbia, non a piedi nudi, ma con calzettoni e stivali. Con un lungo cappotto, nero o verde a seconda degli anni, una sciarpa pesante, il vento che mi manda all’aria i capelli.

Al mare, da piccola, mi ci portavano i nonni. Quelli paterni in Liguria, a Diano Marina, quelli materni, dove capitava. Un po’ in Puglia, un po’ in Toscana, un po’ dove decidevano di far fermare la loro roulotte, che ogni estate ci portavamo appresso dalla cittadina in provincia di Milano come un grosso, buffo e accogliente bagaglio, attaccato alla macchina di mio nonno con quel gancio che sembrava sempre sul punto di spezzarsi, e che ce lo ricordava cigolando.

Sono cresciuta figlia unica, sono diventata sorella che avevo già 20 anni. Al mare, oltre all’acqua, e ai bambini che conoscevo di anno in anno, la mia migliore amica era la noia.
Una noia che colmavo con fumetti, con le audiocassette di musica anni ’60 di mia madre che ascoltavo dentro alle cuffie del walkman, con i libri che mi portavo appresso e mi mangiavo con la stessa foga con cui affondavo i denti nel quotidiano Maxibon.
Quando finalmente mi tuffavo, adoravo stare sott’acqua, oppure in posa “da morto”, con la schiena che galleggiava a filo dell’acqua, le braccia spalancate, gli occhi spesso chiusi per evitare di essere acciecata dal sole. Quando arrivavano le onde, quelle più alte, invece di tornare sulla spiaggia a fare compagnia alla nonna, la spaventavo tuffandomici dentro, “tagliandole” con le mie braccia. A casa, sempre nel suddetto paese in provincia di Milano, non riuscivo neanche a seguire un corso di nuoto per la timidezza e l’imbarazzo di fronte agli altri bimbi più in gamba di me. Al mare, con la nonna che non perdeva una mia mossa, coi piedi piantati nella sabbia, e mi urlava di stare attenta, mi sentivo libera, spensierata, quasi spericolata.
Nel mezzo di onde che a 29 anni tendo a evitare, mi voltavo appena a rassicurarla, con un sorriso da un orecchio all’altro.

A Diano Marina, a volte, veniva anche la famiglia che abitava sullo stesso pianerottolo dei miei nonni. E che tuttora abita lì, anche se le figlie sono adulte e le nostre vite sono molto diverse da allora. Io e Giulia, due personalità diversissime, eppure unite dall’anno della nostra nascita ad oggi, usavamo l’acqua come spazio per stare lontane dagli adulti, per parlare la nostra lingua, per guardare i bambini e i ragazzi più grandi di noi e disegnare a parole quello che immaginavamo di loro. Tutte e due biondissime, tutte e due in qualche modo in fuga dalla nostra quotidianità, facevamo finta di parlare inglese mentre ciondolavamo in acqua. Un inglese assolutamente improvvisato e inventato, che faceva ridere noi in primis, e che pagherei per riascoltare.

Ho passato tutti i miei primi anni da adulta a correre via dal mare, dall’Italia, a fare le vacanze in città, a esplorare capitali europee, a fingere di parlare inglese fino a che non ho imparato a parlarlo per davvero. Tuttora, tante volte, mi sento ancora come quella bambina bionda che voleva spacciarsi per qualcosa che non era. Ci è voluto l’oceano, prima Atlantico in Portogallo e poi Pacifico in California, per ricordarmi che la fuga dalla quotidianità non deve per forza voler dire fuga dalla natura. Eppure, tuttora, faccio ancora fatica a organizzare una vacanza al mare, e a concedermi di non fare nulla per un po’. Per questo mi ritrovo spesso sulle spiagge d’inverno, protetta dai miei vestiti pesanti, a camminare nella sabbia libera dagli intoppi degli stabilimenti estivi, a decantare quanto sia bello il mare d’inverno. È vero, è bellissimo. Ma è anche un modo per evitare di affrontare quelle onde, di riabituarmi a non fare niente e a galleggiare senza una direzione.

Un tentativo goffo di controllare il tempo e organizzarlo in modo che sia sempre costruttivo, sempre a disposizione per imparare qualcosa di nuovo, camminando su strade mai solcate prima, incrociando volti nuovi, facendo fotografie a persone ed edifici, ascoltando playlist coerenti con lo spazio che sto esplorando.

E poi arrivano quei momenti, no, anzi. Devo impormeli. Non arrivano per niente. Quelli in cui la connessione non funziona o comunque il telefono rimane altrove. Il cielo è azzurro e il sole mi scalda il viso e fa riemergere le lentiggini sulle mie guance. Non ho niente da fare, se non accettare che non ho niente da fare, oziare, fare le parole crociate con amici per ore, concentrarmi sulle sensazioni del mio corpo, oppure fissare un punto nel vuoto per 10 minuti di seguito. Spalmarmi ettolitri di crema per non sembrare un salmone.

Me li concedo raramente, ma mi rendono felice come quei tuffi di testa a Diano Marina o il Maxibon che mi si scioglieva tra le dita perché continuavo ad aprirlo dalla parte sbagliata.