Nella pancia del galeone

DI GAËL MOSCARÀ

Gli dico “dai, è come la belote, uguale, però più semplice” e mentre guardo le carte che ho in mano davvero non riesco a capire che ostacoli possa nascondere la briscola per un uomo di settant’anni suonati. 
Lui esita un po’, poi tira fuori una carta e me la porge: “E questo qui cos’è?” fa, spazientito. “Questa. È una donna, di coppe. Sarebbe un otto ma vale due punti”.
Dice “Ah” con il sorriso beffardo da giocatore adulto che sfida un bambino, e non sai mai se le sue difficoltà sono vere o fanno parte del prendersi cura di te.
Penso che forse non sono le regole il problema, ma le carte: “Aspetta ascolta. Ci sono il re, il cavallo e la donna: sul cavallo non ci sono dubbi, il re ha sempre la corona e il mantello rosso, se non è uno di questi due allora è la donna. Capito?”
“Oui, d’accord, d’accord”. Un vuoto improvviso ci riporta giù e rischia di far cadere il mazzo dal tavolo.

Siamo nella pancia del vecchio Guerveur, un galeone di ferro e sale temprato dall’Oceano Atlantico. Tre volte al giorno da Quiberon a Belle Île, a farsi accogliere dalla cittadella del Palais, tre volte al giorno da Belle Île a Quiberon, a sfidare l’ingresso di un porto costruito male, che non conosce vento a favore e richiede un inchino prima di attraccare. 
Ma la gente del Guerveur è sempre tranquilla, e così anche i turisti, maniche lunghe, impermeabile e pantaloncini ad agosto: è una barca bretone, si ripetono ad ogni onda, ha la pelle dura dei marinai, se oggi ha deciso di essere in mare vuol dire che sa di poterlo domare. 

Io e mio nonno ci siamo sistemati in una sorta di piano ammezzato, dove le scale si attorcigliano regalando un salotto marrone e blu, panche imbottite e un tavolino di legno e plastica. A differenza del ponte, qui c’è un odore più forte fatto di nafta e ruggine, se la ruggine ne ha uno, che però mi affascina perché per me è l’odore della traversata. Ho nove anni e mezzo e mi intriga pensare che cambi di intensità mentre il Guerveur percorre la sua vasca di 12 km abbondanti: più forte all’inzio, quando i motori danno il massimo per démarrer, per avviarsi, quasi delicato dopo, con velocità e sensibilità olfattiva dei passeggeri finalmente stabili in modalità crociera. In mezzo, delle vampate improvvise, dettate dal mare che non riesco a vedere da qui. Masse d’acqua alte come case Belle-îloises che arrivano con la dolcezza dei loro tetti spioventi e vanno via bruscamente come le scogliere che guardano da lontano, mescolando le masse d’aria all’interno della nave. Il capitano sa il fatto suo.

L’asso di briscola ce l’ho dalla seconda mano e mi sento al sicuro, quindi mi concentro sulla mia missione didattica. Vincerò questa partita concedendomi il lusso di aiutarlo tra una giocata e l’altra, posso anche permettergli di correggersi dopo gli errori evidenti, dalla prossima saremo di nuovo avversari veri. 
“Perché non hai usato il tre di spade quando ho giocato il cavallo? L’asso non ce l’hai perché ce l’ho io, ti conviene mettere al riparo quei 10 punti il prima possibile”. 
“Perché l’atout è coppe, quindi il tre di spade vale come un tre qualsiasi”
“Ma nonno non ci sono tre qualsiasi a briscola! Come la belote ma più semplice, te l’ho detto prima, è più semplice perché non ci sono differenze tra l’atout e il resto!”
Ah, bon.” Ridacchia di nuovo, ed è chiaro che mi sta prendendo in giro, perché è il miglior giocatore che conosco, di qualsiasi gioco si tratti. Però d’un tratto lo vedo che guarda le carte che ha in mano, si fa serio cercando di ricordare il gioco fin lì e a bassa voce borbotta “drôle de jeu, che razza di gioco.”

Dalle scale spunta Hervé, proprio durante l’ennesimo salto del Guerveur. Lui si aggrappa al corrimano maledicendo le sue scarpe di gomma.
“ Allora Michel, come sta andando?” 
“Cosa devo dirti, è un drôle de jeu! Guarda qua queste carte siciliennes, qui c’è un’aquila ma è un asso di monete, tu lo vedi?” 
“Dai siamo quasi arrivati, forse ce la fai a non farti battere da questo piccolo italiano, Michel”. Hervé dà una pacca sulla spalla a lui e continua la sua salita per le scale, mentre a me fa un occhiolino complice come se ci conoscessimo da sempre. Invece l’ho visto per la prima volta durante l’uscita dal porto di Quiberon, tutti sul ponte per salutare. Mio nonno salutava tutti gli isolani presenti a bordo, tra cui Hervé, e qualcuno come lui ne approfittava per presentarsi a me. Io invece salutavo chiunque fosse rimasto a terra, quelli sul molo e poi quelli sul faro all’uscita del porto, e salutavo il mare, che non avrei più rivisto fino all’arrivo.

Ma chi salutavo? E perché Michel era lì con me sul galeone? Quello era il viaggio verso Belle-île, che vuol dire anche verso di lui, al porto dieci minuti prima del nostro arrivo perché à midi si mangia, e noi bambini dobbiamo avere il tempo di apparecchiare. È davvero con me nel piano ammezzato sotto il poster della Pointe des Poulains? Qui dove non si vede il mare perché non ne ho bisogno e ho bisogno che non si veda: questo mare io lo sento, come un sentiero percorso infinite volte, lo sento fisicamente come se fosse di pietra. Dentro di me rido quando qualcuno si aggrappa, perché questo è l’unico mare in cui le onde non cambiano mai, sono sempre lì e io le conosco tutte come passi alpini, so quando arrivano e quanto durano. Ecco la vetta dove ogni anno faccio incontrare briscole e atout, dove le parole e le lingue si mischiano, ed ecco noi scalarla in tre e precipitare in due a valle, j’arrive. È così che questo mio mare diventa terreno e rende una cosa sola le due isole a cui appartengo, senza più nulla che le separi.

La sirena è un canto di benvenuto, il segnale che permette l’uscita sul ponte, a guardare il mare calmo del porto durante la bassa marea. La sua immagine è vivida, ma onestamente non so se io e Papi abbiamo mai giocato davvero nella pancia del galeone. Conoscendolo non mi avrebbe mai lasciato vincere come si fa con i bambini, sicuramente ricordo male.