DI VALERIA VALENZANO
Io sono nata in montagna ed ora vivo in Pianura Padana.
E il mio racconto sul mare potrebbe terminare qui, con un breve triste elenco delle sfighe che infilo una dietro l’altra come perline, come se la mia vita fosse un braccialetto.
Uno dice montagna e allora tu ti aspetti le cime innevate, il freddo cane, il fumo dei camini, le catene alle gomme della Panda 4×4. Questi sono tutti dettagli che effettivamente fanno parte dei ricordi di una me bambina -ma soprattutto di una me infreddolita.
In questi ricordi, però, a sorpresa, c’è tanto spazio anche per il mare.
Il Mar Jonio entra a gamba tesa nella mia memoria e si prende con prepotenza una fetta di me che non restituirà e che incontro ogni volta che passeggio su un lungomare deserto del Sud Italia.
La Basilicata è una regione piccola, ma ricca di paesaggi unici e variegati e quindi io che vivo in montagna posso prendere la macchina e dopo un’ora essere coi piedi nella sabbia, posso dire “ciao mamma, oggi vado al mare, non preoccuparti i panini li ho fatti già”.
Venti minuti di curve per uscire dallo scrigno delle montagne con le punte aguzze come filo spinato e giù dritti sulla statale 407 che taglia a metà un fazzoletto di terra quasi incontaminato, dove si intravede ogni tanto un gruppo di case bianche e dove le orecchie si tappano perché l’altitudine è minore. Poi si imbocca la 106, la strada che se la fai tutta arrivi a Reggio Calabria, ma a me basta farla per una decina di km e svoltare ad una delle prime uscite per approdare su una spiaggia deserta con la pineta alle spalle.
Per anni, questa strada l’ho percorsa in auto con i miei genitori, nella Fiat Tipo prima, e nella Fiat Multipla poi, ma in entrambe con i cd di Pino Daniele e di Paolo Conte che da allora, inevitabilmente, suonano alle mie orecchie come l’inizio di una vacanza, al pari di una campanella che fa scattare la ricreazione.
La meta era sempre la stessa: il Lido di Policoro. Non c’era bisogno di chiedere “siamo arrivati?” un po’ perché il viaggio era breve e un po’ perché i segnali erano inequivocabili.
A un certo punto scompaiono spartitraffico e marciapiedi e intorno hai solo piante carnose di fichi d’india e oleandri fioriti di un rosa accesissimo, al limite dell’acceccante (può essere accecante un rosa?) – che quando qualche anno fa è stato color of the year di Pantone ho pensato solo alla due corsie che va verso il lido La Stiva. Poi la struttura deserta dell’ex zuccherificio che sembra una cattedrale in rovina che viene da un’epoca lontana e i campi coltivati pieni di fragole e di agrumi, la pineta lunghissima come un bosco misterioso da attraversare in bici.
Lido di Policoro, villaggio Heraclea.
Qua tutto si chiama Heraclea, o Eraclea senza l’acca o, ancora, Heracleia con la i. È l’antico nome del centro della Magna Grecia che sorgeva più o meno in corrispondenza di Policoro. Nel IV sec a.C. avevamo ancora una certa qual rilevanza geopolitica e questo luogo è ricordato per una battaglia importante, dove Pirro ha vinto, una di quelle battaglia che poi ci avrebbe portato secoli dopo a coniare il detto “vittoria di Pirro” e a pensare “caro Pirro ma chi te l’ha fatta fare”.
Ho trascorso molte estati a Policoro, ma non sono mai stata uno di quei bambini che faceva amicizia e poi ogni anno si ricongiungeva col fantomatico “gruppo di amici del mare”, un’aggregazione sociale veramente assurda che in realtà non ho mai invidiato ai miei coetanei.
Giungo finalmente al punto, il significato che ha il mare per me ancora oggi che sono al giro di boa dei miei vent’anni e in spiaggia non vado più con i miei genitori: l’isolamento.
Mai avuto contatti con altre persone, mai vissuto l’affollamento della spiaggia, mai l’ansia di dover conquistare il proprio posto, nessuna coda di nessun tipo. Niente.
A Policoro, se vuoi, puoi andare in posti dove non c’è davvero, assolutamente, magnificamente niente.
Portavamo da casa un po’ di spesa, così da non dover andare in paese per giorni, portavo con me almeno cinque libri, sperando mi bastassero. Le uniche due tappe quotidiane erano l’edicola e il bar.
Come quattro alieni sotto l’ombrellone ricoperti di strisce bianco fluorescente io mio padre mia madre e mio fratello ci isolavamo come degli eremiti senza nessun bisogno e nessuna voglia di allargare la cerchia della nostra vacanza. È solo ed esclusivamente al mare che ho visto mio padre risolvere complicatissimi Bartezzaghi. È al mare che ho scoperto la felicità di vedere i miei genitori sereni.
A volte camminavamo lungo la battigia per ore, arrivavamo alle foci dei ruscelli, li superavamo con saltelli che per me avevano il sapore dell’avventura, ci fermavamo solo quando la pineta invadeva la spiaggia ed era impossibile proseguire. Altre volte prendevo in prestito la bici in portineria e con mio fratello percorrevo questi viali ciclabili enormi e deserti dove dei ruderi di attrezzi per la ginnastica sembravano delle steli di Stonehenge.
Leggevo fino ad avere mal di testa, fino a farmi incrociare gli occhi, sapevo che nulla poteva interrompermi e, per me, avere pieno controllo sul mio tempo significava sostanzialmente non farmi distrarre mai dalle mie storie.
È per questo, che ancora oggi, a 26 anni, se leggo in spiaggia, cerco di riprodurre quella sensazione di pacifico e sereno isolamento che mi riconnette con l’essenziale.
È per questo, che ancora oggi, a 26 anni, se leggo in spiaggia, non mi dovete rivolgere la parola. Mai.